In ricordo dei fiorentini deportati a Mauthausen
ANED – 69° anniversario del trasporto dei deportati fiorentini verso Mauthausen
8 marzo 2013 – Piazza Santa Maria Novella, Firenze – Intervento di Daniela Lastri
I nostri morti , i nostri morti deportati non dobbiamo dimenticarli. Per questo è giusto ogni anno venire qui e ricordare. Soprattutto insieme ai giovani. Ricordiamola, questa terribile vicenda della deportazione dopo gli scioperi del marzo 1944, che coinvolse soprattutto uomini e giovani adolescenti. L’8 marzo del 1944 li misero in carri bestiame e poi li portarono nel campo di concentramento di Mauthausen. Adolescenti come Mario Piccioli, preso e messo così su quel carro in modo assolutamente casuale.
Perché dobbiamo essere qui? Perché dobbiamo combattere i rigurgiti del negazionismo, di chi – passati gli anni – non vuole né sentire né vedere. Perché bisogna dire a chi oggi sostiene che c’è stato anche un fascismo buono di tornare a ricordare che le deportazioni si facevano con il protagonismo della Guardia Nazionale Repubblicana; persecuzioni, scorribande punitive, torture, uccisioni di innocenti furono fatte dai nazisti e dai fascisti insieme.
Gli scioperi del ’44 furono la più grande protesta di massa attuata senza aiuti dall’esterno, senza armi e con grande energia e sacrificio. Non fu solo il più grande sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu il più grande sciopero nell’Europa occupata dai nazisti. E tutti sanno che questo sciopero ebbe anche risvolti importanti per favorire lo sviluppo della Resistenza.
Per questo, a 69 anni di distanza, abbiamo il dovere di ricordare, di non perdere la memoria degli avvenimenti. Non vogliamo che il tempo aiuti l’oblio.
Per questo, la Regione promuove il Treno della Memoria ad Auschwitz, che coinvolge centinaia di giovani, e Provincia Comuni e Regione vanno ogni anno con gli studenti delle nostre scuole a Mauthausen.
Voglio concludere con le parole di Julius Fucik, dirigente della Resistenza cecoslovacca, impiccato a Berlino l’8 settembre 1944: “Non dimenticate, vi chiedo una sola cosa, se sopravvivete a questa epoca non dimenticate. Non dimenticate né i buoni né i cattivi. Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi. Un bel giorno oggi sarà il passato e si parlerà di una grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia. Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell’ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il cui nome resterà. Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi stessi.”.
Noi faremo così.
Per la democrazia paritaria
La democrazia al bivio. Democrazia paritaria – Oltre le quote rosa
13 ottobre 2012 – Auditorium del Consiglio Regionale – Introduzione di Daniela Lastri
Ringrazio tutti voi di essere qui presenti, e ringrazio il Presidente del Consiglio regionale e l’Ufficio di presidenza che hanno voluto promuovere questo convegno. E’ un momento di riflessione a cui teniamo particolarmente in vista di importanti decisioni che saremo presto chiamati a prendere.
La verità è che, come diciamo nel titolo di questo incontro, siamo ad un bivio, la democrazia italiana è a un bivio. Come vedremo con le nostre ospiti, non è che l’Italia repubblicana sia stata immobile sui temi chiave della partecipazione delle donne alla vita sociale e politica: è che non ce l’ha fatta a fare il salto di qualità. È rimasta nel limbo. E oggi, nell’Italia della crisi economica e politica, rischiamo di fare un bel passo indietro.
Se non vogliamo tornare indietro, dobbiamo indicare e trovare una via d’uscita superiore. Dobbiamo far leva su più cose insieme, e proporre all’attenzione della politica e delle istituzioni l’obiettivo di un nuovo patto, di un cambiamento fondato sulla democrazia paritaria.
Dunque sì, non possiamo che salutare con soddisfazione:
- leggi come la 120 del 2011 sulla presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e in quelle a partecipazione pubblica
- il voto del Senato sulla legge che promuove il riequilibrio della rappresentanza nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali
- e prima ancora la riforma degli articoli 51 (uguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, e promozione delle pari opportunità con leggi della Repubblica) e 117 (leggi regionali per la parità sociale e politica) della Costituzione
E però, come diranno Marilisa D’Amico e Silvia Pasqua, l’Italia è il paese del grande mare che c’è tra il dire e il fare, il paese delle rivoluzioni incompiute e spesso tradite. Il paese che non riesce ad emergere dal gruppo di nazioni di retroguardia nella rappresentanza politica delle donne, il paese dei gap che non si rimarginano mai.
Per arrivare ai risultati che citavo prima, si è dovuti passare per dibattiti parlamentari che hanno sfiorato la rissa, e nei quali si sono sentite dire parole come “le donne sono disinteressate alla politica” o “se forziamo le donne alla politica forziamo il principio di meritocrazia”. Lascio a voi i commenti.
Non sta a me segnalare oggi l’inconsistenza concettuale e pratica degli stereotipi che si addensano sul ruolo delle donne, nella famiglia, nella società e nella politica. Avrete modo voi stessi di dirlo. Invece, io voglio chiedermi: come si fa a superare questo stallo? Questa incapacità di gettare finalmente il cuore oltre l’ostacolo?
Per me, ma credo anche per voi, è venuto il tempo della democrazia paritaria, della giustizia di genere che si affianca alla giustizia sociale, della costruzione comune di istituzioni democratiche rinnovate. Questo è il paradosso che ci tocca vivere e far vivere: il blocco si supera solo rilanciando il tema più grande, o si tocca questo tema o ci tocca vivere di piccoli passi avanti e di tanti passi indietro.
Secondo interrogativo: come facciamo a fare questo salto di qualità?
Gli interrogativi rimandano al nostro impegno, a come esercitiamo la nostra capacità di convincere, a come costruiamo relazioni tra società e istituzioni che rendano saldo il cammino.
Le consigliere regionali della Toscana hanno voluto mettere nero su bianco quello che pensano, in una proposta di Risoluzione sulla democrazia paritaria e sulla futura legge elettorale regionale. Lo hanno fatto, lo abbiamo fatto, partecipando ad un movimento più generale, ad un patto sottoscritto dalle consigliere di tutti i consigli regionali in occasione del Forum delle elette tenuto a Roma nel novembre 2011. E oggi ribadiremo queste cose con la Carta di intenti che abbiamo elaborato insieme alle donne di Senonoraquando e che sottoscriviamo stamani prendendoci altri impegni (abbiamo elencato le diverse possibilità: doppia preferenza, oppure uninominale con numero paritario di candidature, oppure ancora il “binominale”, e altri strumenti che arrivano alla inammissibilità delle liste che non applicano i criteri paritari; approfondimenti su queste possibili scelte saranno svolti da diversi interventi).
Direi che dobbiamo darci tre obiettivi, che porrei come obiettivi comuni, non di parte, da assumere insieme: donne che sono nelle istituzioni e che provengono da diversi campi, donne impegnate nella società civile, forze politiche, uomini della politica e delle istituzioni.
Il primo è di cambiare lo Statuto regionale, e di introdurre il principio-obiettivo della democrazia paritaria. Proporrò alle mie colleghe toscane di assumere una iniziativa in tal senso, e conto sulla disponibilità dei colleghi consiglieri.
Il secondo è di rafforzare le politiche di pari opportunità, nell’ottica di una democrazia paritaria che si riversi nei luoghi della responsabilità e dell’amministrazione. Penso al rafforzamento della nostra legislazione sulle nomine, tanto positiva quanto così spesso non realizzata.
Il terzo è la legge elettorale regionale, appuntamento obbligato che abbiamo di fronte a noi, e che sarà bene affrontare al più presto, anche per evitare che – come oggi avviene a livello nazionale – sia troppo condizionato dal gioco elettorale e, perché no, dalle aspirazioni personali. Ci sono già in campo proposte sulle doppie preferenze (del tipo Campania), ma nessuno si è ancora avventurato sul sistema uninominale. Insomma: dalle donne deve venire un segnale inequivoco su dove si deve andare, anche perché – con la riduzione del numero dei consiglieri e dei componenti la Giunta – le donne rischiano una beffa in più, magari non voluta, magari inconsapevole, di vedere la rappresentanza femminile ulteriormente ridimensionata. Sappiamo come è andata in Toscana nel 2010, con sole 9 donne elette su 55, uno dei livelli più bassi mai raggiunti a destra come a sinistra. Ed è una cosa “strana” e inconcepibile, in una Regione che ha una Giunta in cui le donne sono ampiamente partecipi e una donna è la portavoce dell’opposizione. E pensare che, avendo un sistema di liste bloccate, a detta di alcuni avremmo dovuto essere avvantaggiate…
Attenzione: con la democrazia paritaria non poniamo ancora una volta un problema di quote. Poniamo la necessità di un discorso più ampio, di una auto riforma della politica, di un atto paragonabile al voto alle donne. Un atto di coraggio e di rinnovamento che travalica gli interessi del momento. Un atto di riconoscimento, non di concessione, della politica fatta di due generi.
Dovunque nel mondo, quando le democrazie prendono forma, il primo problema è investire sulla presenza femminile. La nostra democrazia – afflitta da profondo malessere che però crediamo curabile – deve ricostruire una forma nuova, rilegittimarsi nella partecipazione. E questo non può avvenire senza scegliere, uomini e donne, un principio fondante di parità.
Come vedete, mi sono mossa tra evocazione (dei problemi) e invocazione (all’impegno di tutti). So bene che il nodo cruciale della legislazione elettorale è molto scivoloso, molto più delle politiche tradizionali di parità e pari opportunità, molto più dei principi generalissimi su cui appare più facile trovare ascolto e anche intese.
Ma davanti a noi abbiamo ormai il problema di salvare la democrazia, nel senso più alto del termine, come governo effettivo della repubblica, perché il potere del popolo non sia svilito dal governo mondiale della finanza e dal condizionamento delle oligarchie. In questo problema ci siamo tutti, e dobbiamo decidere se ci acconciamo ad una visione piccola e riduttiva delle istituzioni democratiche, nella quale ricercare una nicchia, un governo marginale della società, oppure se vogliamo riprendere il cammino interrotto, il cammino della civiltà europea. Non credo di esagerare.
La crisi delle istituzioni democratiche si vede anche dal nostro punto di osservazione, da una Regione che è un simbolo di buon funzionamento della dinamica politica e istituzionale. E non vedo come riusciremo a fronteggiare questa crisi se non si ricostruisce una unità di fondo del popolo. È in questa ricostruzione democratica che c’è, intera, la democrazia paritaria di cui parliamo, la democrazia delle donne e degli uomini, nessuno escluso.
Grazie.
Libere e sicure. Contro la violenza sulle donne
Per vivere libere e sicure. Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Firenze, 24 novembre 2012 – Palazzo Panciatichi
Introduzione di Daniela Lastri, Consigliera regionale
Un saluto e un grazie a tutti voi (in particolare agli studenti dei licei Machiavelli e Castelnuovo), che avete voluto essere qui a discutere di cose difficili e molto impegnative.
Difficili perché raccontare della violenza sulle donne significa parlare di cose molto dure e di entrare in un groviglio fatto di crudeltà e di incapacità di risposta sociale. Difficili perché attraversano la vita di molti di noi. In un Paese in cui 7 milioni di donne sono state oggetto di violenza almeno una volta nella vita, è praticamente impossibile parlarne senza ricordare un episodio che abbiamo vissuto o una persona che abbiamo conosciuto.
E poi sono cose impegnative, perché dobbiamo anche trovare una strada per fronteggiare e sconfiggere questa violenza, guardando a quello che è stato fatto, anche qui in Toscana, ma sapendo che moltissimo resta ancora da fare.
Io credo che abbia ragione chi dice che il femminicidio è una emergenza sociale, e ogni emergenza richiede strategie di attacco molto efficaci. È un’emergenza per le tante uccisioni di donne (ormai nel 2012 siamo a oltre 100 donne uccise), ma lo è anche per la vastità, numerosità, crudeltà degli atti violenti e delle minacce che provocano un danno fisico, sessuale, psicologico. Femminicidio lo è in ogni caso, perché questi comportamenti, anche quando non portano alla morte della vittima, sono diretti alla donna in quanto tale, alla violazione del suo diritto di vivere libera e sicura.
Nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne si pone a tutte le società, a tutte le nazioni, il problema della insostenibilità della violenza di un genere sull’altro, della insostenibilità di qualsivoglia impunità sociale.
Oggi, parlandone, vogliamo contribuire a interrompere il clima di normalità di questa violenza, e ad alimentare un movimento di presa di coscienza e di concreto intervento. Coscienza e azione. Che devono vivere nel mondo della crisi economica, perché altrimenti se ci si mette il silenziatore, se non si capisce che, anche grazie a quelle che sembrano le uniche priorità, rischiamo di ritrovarci da qui a poco in una guerra perduta, che ha lasciato sul campo tante, troppe vittime.
La questione va affrontata, non può essere elusa, non può essere rinviata a quando ci saranno le risorse, a quando potremo permetterci nuovi servizi. L’azione repressiva e preventiva non deve cessare dove c’è, e deve essere messa in moto dove non c’è.
In Consiglio regionale proprio in questi giorni abbiamo approvato una mozione intitolata “Per contrastare il fenomeno del femminicidio”, e tra le altre cose abbiamo sostenuto che il sistema toscano di contrasto alla violenza di genere va rafforzato. Superando i punti di debolezza segnalati nel Quarto rapporto 2012 sulla violenza di genere in Toscana. Qui se abbiamo potuto apprezzare i progetti innovativi come il Codice Rosa e il Centro di ascolto Uomini maltrattanti, abbiamo anche visto che occorre migliore procedure, superare burocratismi, fare più formazione, cercare di far emergere il sommerso, trovare il modo per riuscire a mettere sempre in sicurezza le donne. Dobbiamo farlo, non possiamo arretrare.
Lo dobbiamo alle 5723 donne che si sono rivolte dal 2009 al 2012 ai 25 centri antiviolenza della Toscana, e alle donne che stanno, nel sommerso, dietro a questa punta di iceberg. Solo nell’ultimo anno le richieste di aiuto sono state 2033, cioè 100 in più dell’anno precedente.
Bisogna sostenere di più i centri antiviolenza, potenziando le azioni del piano socio-sanitario. Il ruolo dei centri antiviolenza è stato in questi anni determinante. I centri hanno contribuito in modo decisivo a far emergere il problema della violenza sulle donne e a sensibilizzare le istituzioni pubbliche. 12 centri e case rifugio si sono costituiti in coordinamento (si chiama TOSCA), e grazie a questa realtà – con le competenze specifiche attivate – è cresciuto il collegamento con i servizi territoriali.
Ma c’è anche un problema nazionale, dobbiamo saperlo. Leggi importanti sono state fatte (legge contro lo Stalking) , è stato adottato il Piano di azione nazionale, sono state fatte le prime rilevazioni per conoscere il fenomeno, eppure non si può tacere che il Comitato CEDAW ha raccomandato nel 2011 l’Italia, vista la drammaticità dei dati sulle uccisioni di donne dai propri partner o ex partner rivelatori di un fallimento delle azioni fin qui poste in essere, di adoperarsi per proteggere adeguatamente le donne. Qui partiamo, da pochi fatti positivi (la legge) e da molti insuccessi pratici. Perciò dobbiamo procedere rapidamente alla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa firmata a Istambul l’11 maggio 2011 (firmata dal Governo italiano il 27 settembre scorso), e ad adottare misure adeguate per invertire la tendenza. Servono risorse finanziarie, serve una mobilitazione delle risorse umane, serve più sensibilizzazione. Serve una battaglia culturale e civile, che deve mettere rapidamente solide radici.
Tutto quello che può spingere in questa direzione va sostenuto. Essenziale è il ruolo delle associazioni delle donne.
La violenza sulle donne ci riguarda tutti. Essa è, come ha voluto dire Amartya Sen, un genocidio nascosto. Non è un residuo del passato.
Se continua questa erosione della dignità delle donne, si va dritti verso la negazione della personalità e della libertà femminile.
Perciò chiediamo un salto di qualità nell’azione pubblica, e ci impegniamo a farlo per quello che sta nelle nostre forze.
Sappiamo che il fenomeno della violenza è ancora in gran parte sommerso. Il sommerso non è la periferia della società, è qualcosa che contrasta il campo alla crescita della libertà femminile, dei livelli di istruzione, della volontà di immergersi nel lavoro (Linda Sabbadini). Stride con la soggettività femminile, e le donne non possono più subirla.
Ascoltiamo, dunque, i nostri ospiti, le loro esperienze e quello che hanno fatto per raccontare la realtà. In particolare, Riccardo Iacona, con il suo libro “Se questi sono gli uomini”, ha testimoniato la gravità di un fenomeno che costituisce una vera emergenza nazionale; Rossella Zanardo, con “Il corpo delle donne”, libro e documentario, ha scosso le coscienze di molti aprendo una discussione sull’immagine della donna. Essi possono aiutarci, oltre che a capire, ad agire. In fondo, oggi, seppure senza apporre firme, stipuliamo un patto di mutuo impegno, per continuare una battaglia che merita di essere data.
Alle ragazze e ai ragazzi che sono qui vorrei solo dire che noi proviamo a porre rimedio, noi proviamo a fare le leggi, a punire i colpevoli e a offrire alle vittime una possibilità di riscatto; ma sta a voi, alla vostra intelligenza e alla vostra capacità di cambiare, rendere queste cose effettive e perfino inutili, costruendo con impegno e altruismo una società nella quale nessuna violenza abbia più cittadinanza, nella sfera pubblica come in quella privata, e gli uomini e le donne possano vivere in libertà tutto il tempo della loro vita comune. Tutto, senza eccezioni.
Sul Garante regionale per l’infanzia
Sul Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza
intervento in aula – Consiglio regionale – 22 dicembre 2011
Mi trovo a dovermi esprimere su un tema per me molto sentito, che riguarda la realizzazione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Per me, la legislazione – anzitutto quella statale ma direi anche quella regionale – dovrebbe fare un salto di qualità, e garantire direttamente ad ogni bambina e ad ogni bambino un nucleo forte di diritti all’istruzione, al gioco, alla casa, alla salute, alla crescita individuale, da esigere verso tutto il mondo degli adulti: pubbliche amministrazioni, sistema giustizia, famiglie. Molto è stato fatto ma molto è ancora da fare, come la garanzia del diritto all’educazione 0-6 anni a partire dal riconoscimento dei nidi d’infanzia come diritto effettivo a domanda collettiva e non individuale e il diritto all’accesso generalizzato alla scuola dell’infanzia. O come il diritto dei bambini immigrati a frequentare la scuola con successo e in posizione di parità.
A partire da questo nucleo essenziale di diritti che dovrebbero (devono) formalmente essere riconosciuti va costruita ogni figura di Garante, che possa operare fattivamente per dargli realizzazione ogni qual vota i diritti siano negati o non pienamente realizzati, o ogni qual volta le politiche pubbliche (penso ad esempio a quelle per la casa) possono condizionarne l’esercizio.
Al di fuori di questa funzione, le figure di Garante dell’infanzia sono destinate a muoversi in aree grigie e scarsamente efficaci, e si traducono in realtà nell’auto assoluzione della politica: i diritti sono scarsi e di poco peso, e non sapendo cosa fare si attiva (almeno) una figura di garanzia. Questa logica non mi convince, e non mi ha convinto nemmeno quando ero assessore al comune di Firenze, perché ben sapevo che il primo vero garante dei diritti dell’infanzia è il comune, il sindaco, il servizio sociale, i servizi educativi. Più volte, in occasione dell’esame della legge regionale, ho avuto modo si spiegare – anche a nome dell’Anci – che ci si stava muovendo in modo incoerente e in parte discutibile.
Su scala nazionale, con la legge 112 del 12 luglio 2011 è stata recentemente istituita l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Appena un mese fa i presidenti di Camera e Senato hanno nominato titolare dell’Autorità Vincenzo Spadafora, presidente di Unicef Italia.
La legge statale è molto attenta a definire i compiti del Garante nazionale in coerenza con la convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori (adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996), e ne fa un soggetto indipendente da ogni funzione di governo, statale, regionale o locale. Per quanto dettata in un contesto normativo non soddisfacente sul riconoscimento dei diritti dei minori, la legge statale riconosce il ruolo che giocano gli enti territoriali.
Non altrettanto si può dire della nostra legge regionale, che sembra invece collocare più volte il Garante in un ruolo di amministrazione attiva, dunque coinvolto nelle scelte politiche. Ciò, peraltro, dotandolo di risorse appena sufficienti a far fronte alle spese di funzionamento. L’errore, certamente non intenzionale, che a mio avviso è stato commesso con la legge regionale 26 del 2010 è di non essersi misurati né con “lo stato dei diritti” dei minori (che andrebbe invece fortemente potenziato nei vari settori di azione pubblica) né con l’impegno decisivo che svolgono i comuni, proprio nel quadro di diritti scarsamente riconosciuti. Ne viene fuori una figura molto ibrida, troppo schiacciata sulle politiche, anzi sulla politica dei comuni. Questo errore va corretto rapidamente, e non può che essere fatto oggi, dopo l’istituzione del Garante nazionale.
Per questo, sarebbe ragionevole darci un breve tempo per riformare e migliorare la legge regionale coordinandola con quella dello Stato, potenziando alcune funzioni indipendenti e riducendo quelle politiche e di amministrazione attiva, per evitare che l’azione decisiva del Garante regionale diventi non a tutela dei minori (come tutti vogliamo) ma a supporto di questa o quella posizione che emerge nel dibattito politico.
Ciò consentirebbe anche di procedere ad una nomina senza l’assillo della politica (la proposta che viene fatta riguarda peraltro una personalità politica di primo piano dei governi di questi anni, che ha svolto azione politica nel merito delle questioni dell’infanzia e dell’adolescenza). Se il Consiglio ritiene che la titolarità dell’ufficio del Garante debba essere affidata ad una personalità politica e non tecnica (come invece consiglierebbe la funzione) non posso che prenderne atto. Non condivido; come – allo stesso modo – non penserei mai che a una funzione del genere possa essere chiamata una persona che, come me, sull’infanzia e sull’adolescenza ha espresso posizioni politiche nettamente definite, che la collocano politicamente all’interno del dibattito non certo in funzione neutrale. Ma le mie riserve sono soprattutto, come dicevo, sulla funzione che deve essere rivestita.
Ricordo, a titolo di confronto, che ben diversa è la natura dei compiti affidati al Difensore civico regionale o al Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Lì la linea distintiva tra funzioni di garanzia e attività amministrativa e politica è ben curata, e perfino la nomina di personalità politiche consente di evitare ogni equivoco. Qui, nella legge sul Garante dell’infanzia le cose sono molto più confuse. E questo non è un fatto positivo, prima di tutto per gli interessi delle bambine e dei bambini.
In modo semplice ed efficace, l’articolo 12 della convenzione europea indica le principali funzioni degli organismi nazionali (non a caso richiamate nelle competenze dell’Autorità statale):
a) fare proposte per rafforzare l’apparato legislativo relativo all’esercizio dei diritti dei minori;
b) formulare pareri sui disegni legislativi relativi all’esercizio dei diritti dei minori;
c) fornire informazioni generali sull’esercizio dei diritti dei minori ai mass media, al pubblico e alle persone od organi che si occupano delle problematiche relative ai minori;
d) rendersi edotti dell’opinione dei minori e fornire loro ogni informazione adeguata.
Se ci pensate, è proprio quello che ho cercato di dire fin qui: impegnarsi veramente per estendere i diritti, informare, ascoltare i bambini e le bambine.
Saluto alla marcia di Barbiana
Marcia di Barbiana – 20 maggio 2012
Un saluto a tutti voi.
Da sempre, sono ormai 11 anni, partecipo a questa marcia, e faccio di
tutto per non mancarla.
Oggi non potevo non essere qui, e sono contenta di farlo anche in
rappresentanza della Giunta regionale e della Vice Presidente
Targetti.
Qui ci vengono quelli che credono nel valore della scuola pubblica,
che si battono per una scuola non classista, che sostengono la scuola
di NON UNO DI MENO.
Questa comunità – di diversi, perché diversi sono i punti di partenza,
e di uguali, perché ciascuno ha diritto all’istruzione – ha sempre
qualcosa da dire alla società e alle istituzioni, qualcosa di buono,
qualcosa che serve a migliorare il mondo in cui viviamo.
Ripercorriamo questi luoghi ogni anno per rivivere insieme il senso
del nostro impegno, per riconfermare a noi stessi e agli altri quello
in cui crediamo. Lo facciamo con semplicità e con determinazione.
Oggi lo facciamo anche per un motivo in più, più forte e più acuto che
mai, per protestare contro la barbarie degli assassini, che hanno
voluto portare dolore e crudeltà in una scuola lontana da qui. Siamo
vicini alla nostra scuola di Brindisi, alle ragazze che la
frequentano, alle famiglie delle vittime.
Oggi a Barbiana è un giorno triste. Ma la nostra determinazione,
quella che ogni anno si rafforza in questa marcia della libertà,
dell’uguaglianza e della civiltà, non è scalfita.
Da domani sulle nostre spalle, sulle spalle di chi crede nei valori
della scuola di tutti e di ciascuno, sulle spalle di chi ha il dovere
di dargli un futuro, c’è anche questo: difendere la scuola
dall’attacco violento che le viene portato. Sono sicura che ce la
faremo. Il nostro esercito di pace è immensamente più grande, forte e
combattivo del manipolo di assassini, mafiosi o terroristi, che
vorrebbe intimidirci e farci cadere nella paura e nel caos.
La scuola non è il luogo della paura, è il luogo della speranza, e noi
alla speranza di un futuro migliore non possiamo, non vogliamo
rinunciare.
Continuiamo dunque il nostro cammino, ritroviamo le nostre ragioni.
Ripartiamo da qui, da questi luoghi che evocano la parte migliore di
noi stessi, dalla memoria di quello che ci hanno lasciato in eredità
Don Milani e la sua scuola di Barbiana.
Torneremo domani nelle nostre scuole, nei nostri luoghi di lavoro,
nelle istituzioni, con la convinzione di voler essere ancora di più in
prima fila a difendere e a promuovere la scuola e la società che
vogliamo.
Intervento sul Piano integrato generale dell’istruzione
Intervento sul PIGI – 17 aprile 2012
Non c’è modo di rilanciare politiche di sviluppo se non funziona il sistema dell’istruzione e della formazione. Per questo, il Piano che è in approvazione ha l’ambizione di cogliere di ogni segmento del sistema gli aspetti più qualificanti e di puntare, allo stesso tempo, alla qualità dell’insieme.
Abbiamo lavorato in questi mesi per dare ancora più spessore all’impostazione – già di per sé molto positiva – del Piano che la Giunta ci ha presentato.
Voglio sottolineare questi passaggi perché – a mio avviso – rafforzano il quadro (ripeto: già di per sé molto positivo) delle azioni pubbliche che vogliamo mettere in campo.
L’istruzione che vogliamo è qualcosa di più di un settore della vita sociale da mantenere in vita. È la scommessa di un futuro migliore. Per questo abbiamo voluto rafforzare azioni di sostegno sui servizi (come il trasporto scolastico per i disabili), azioni di inclusione sociale (istruzione per gli immigrati, insegnamento delle lingua italiana), azioni per garantire le scuole dell’infanzia. E abbiamo voluto indicare l’obiettivo di una legislazione più intensa, quella legge regionale sul sistema di istruzione, che serva a traghettarci verso la piena assunzione di responsabilità nella gestione delle scuole della nostra comunità.
Abbiamo lavorato in questi mesi per verificare l’impatto delle politiche regionali sul sistema della formazione, ricavandone elementi utili che abbiamo tenuto presenti nella discussione di questo Piano.
Infine, ci siamo preoccupati di cercare di mettere in sicurezza il sistema della programmazione locale, puntando più di prima sulle zone distretto.
Insomma, questo Piano è per noi l’occasione per aprire una stagione nuova, che vogliamo guidare e accompagnare, non da soli ma con tutti i soggetti pubblici e privati del sistema di educazione e della formazione. Puntiamo su un pubblico forte e di qualità, che perciò stesso è in grado di sostenere un rapporto moderno e maturo con il privato sociale. L’obiettivo è fare del nostro sistema dell’istruzione e della formazione la punta avanzata dello sviluppo che vogliamo costruire.
Riforma elettorale e democrazia paritaria
Relazione tenuta da Daniela Lastri sulla riforma della legge elettorale regionale Il 6 aprile 2011
Buonasera! Voglio anzitutto ringraziare i presenti e gli ospiti che hanno accettato di essere a questa iniziativa promossa dal gruppo del PD in Consiglio regionale.
Ogni introduzione che si rispetti propone auspici per la discussione, e io – con quella che mi accingo a fare – non voglio essere da meno. Spero, infatti, che si possa discutere apprendendo ciascuno qualcosa dagli altri, e dunque un po’ più liberi dalle inevitabili formalità delle sedi istituzionali. Mi basterebbe, per considerare questo confronto un successo, che riuscissimo a costruire il quadro della situazione di partenza e poi delle possibilità di riforma.
Voglio perciò essere breve e non girare intorno ai problemi.
La discussione sul sistema elettorale è aperta sia a livello nazionale sia a livello regionale. Difficile dire cosa bolle in pentola a livello nazionale. Il PD, ad esempio, ha assunto una posizione ufficiale per l’uninominale e il doppio turno. Tuttavia, pur di andare a votare con qualcosa di meglio dell’attuale sistema, è disponibile ad altre soluzioni. L’obiettivo minimo, mi pare, è di superare l’assurdo principale, quello che consente a chi vince anche con poco di prendere un vantaggio enorme (almeno alla Camera dei deputati; al Senato, si sa, è tutta un’altra storia).
Non so che cosa si riuscirà a fare a livello nazionale. Temo ben poco. E il sistema elettorale della Camera condizionerà molte scelte politiche sugli schieramenti che si confronteranno.
A livello regionale è un’altra storia. Ed è bene decidere lontani dalle elezioni del 2015. La lontananza rispetto al 2015 evita che il dibattito si svolga con egoismi di parte: è bene che chi è chiamato a votare una nuova legge elettorale lo faccia anche con una certa distanza dalle proprie aspirazioni personali.
È bene, soprattutto, che la Toscana si lasci alle spalle il fatto di essere l’antesignana del sistema elettorale nazionale (per capirci, del porcellum). Però, è giusto dire che questo non è vero fino in fondo: in Toscana ci sono le liste bloccate, è vero, che rappresentano il vulnus più evidente alla scelta dei cittadini; ma, ricordiamocelo, la legge Toscana non premia chi vince con pochi voti, garantisce anche la minoranza, e soprattutto ha un orizzonte legale – l’elezione del capo dell’esecutivo – che invece sul piano nazionale è una vera e propria forzatura.
Dunque, si deve cambiare, e noi siamo i primi a doverlo fare. Se lo facciamo in tempo, possiamo anche innovare di più, ed evitare che eventuali giudizi di costituzionalità – sempre possibili in materia elettorale regionale – si svolgano a ridosso delle elezioni.
Qui oggi affrontiamo il problema del sistema elettorale dal punto di vista delle donne. Come si vedrà, questo punto di vista offre spunti utili per tutti, di qualsiasi schieramento politico facciano parte.
Vogliamo partire dal fatto che il sistema elettorale è l’aspetto centrale della rappresentanza, e che è tempo di passare dalle “quote rosa” ad una democrazia paritaria. Mille sono i motivi, e qui mi basta accennarne ad alcuni.
Ho avuto modo di ricordare in questi giorni che le donne hanno un rapporto con il potere molto diverso dagli uomini. Non sempre, ma quasi sempre è così. La differente sensibilità, perfino interiore, delle donne è un fatto; ed è un fatto la lunga storia di distanze, esclusioni, irriducibilità a ruoli di potere fine a sé stesso.
Questa storia dice molte cose. Dice che delle donne, in genere, ci si fida di meno. La politica, in questo, è più indietro della società. Salvo che in alcuni settori che resistono ai ruoli maschili, le donne hanno conquistato posizioni di primo piano. In politica, invece, i passi avanti sono più lenti. Non c’è una conventio ad escludendum, ma non c’è dubbio che, prima che un incarico sia affidato ad una donna, i meccanismi di selezione spingono altrove. Chi ci si è trovata dentro lo capisce bene.
Eppure, le donne possono garantire molto. Spesso studiano di più, spesso lavorano e si impegnano di più, in genere si occupano di più degli altri, e si lasciano trasportare di meno nei luoghi grigi della politica. Sono anche, in generale, meno indulgenti verso l’illegalità. Solo che, in politica, sono un numero esiguo. E il primo passaggio della politica è la rappresentanza nelle istituzioni. Qui c’è la prima fonte di legittimazione del potere politico. Se non si affronta questo passaggio, si fa fatica a fare qualsiasi passo ulteriore.
Dunque, se si vuole veramente rinnovare la politica, femminilizzare i luoghi del potere diventa un obiettivo ineludibile, ed è anche la condizione principale perché le azioni positive per la promozione del ruolo sociale della donna nel mondo del lavoro, delle professioni e dell’impresa non restino nell’agenda virtuale della politica. Ci si può affidare alla sola buona volontà dei partiti? Direi di no, per la semplice ragione che i partiti, e ancor più quelli personali (non per niente tutti maschili), sono tentati più dal vecchio che dal nuovo. Bisogna invece superare la politica concessa alle donne o, il che è lo stesso, la politica che dà spazio alle donne a condizione che perdano qualcosa di sé nell’esercizio del potere. Ci vuole una svolta vera, un atto di auto riforma della politica tradizionale. Un po’ come avvenne con il voto alle donne.
L’auto riforma deve partire dal sistema elettorale, per rifondarlo – dicevo – sulla democrazia paritaria.
Beninteso, molte donne che fanno politica continuano a marcare una differenza sostanziale rispetto al modo di esercitare il potere da parte degli uomini. Eppure, anche per loro, il problema si pone. Perché sono troppo poche. E perché da esse si pretende molto, più che dagli uomini. Gli esami per le donne veramente non finiscono mai. Perfino le primarie, strumento avanzato e innovativo, usato dal PD ma anche da altri partiti, possono scivolare lentamente verso modalità più tradizionali della politica, e diventare l’opposto di quello che si vorrebbe che fossero. Io stessa che le ho vissute in prima persona, suggerirei oggi alle donne questo atteggiamento: fatevi avanti, buttatevici dentro, fatelo per testimoniare una presenza, ma non vi fate troppe illusioni: fin quando dominerà il principio che chi vince ha sempre ragione (principio tipico dell’atteggiamento maschile), per le donne quasi non ci sarà scampo. O sono sostenute dal potere costituito oppure si va poco avanti. Alle donne si rimprovera sempre di essere parziali: perciò, o vi fate forza della parzialità oppure dovrete dimostrare mille volte le vostre capacità. Alle donne si rimprovera sempre di non avere le mani in pasta: perciò, o vi fate forza della vostra autonomia oppure le mani dovete sporcarvele.
Il tema della democrazia paritaria attiene direttamente a come si esercita il potere, e se questo può essere rifondato più su principi di inclusione, di collaborazione e di cooperazione che sul conflitto e l’esclusione. In una democrazia paritaria uomini e donne hanno le stesse chances, ma non solo in senso formale. In una democrazia paritaria le donne non devono più chiedere spazio, perché questo sta già nelle cose, è nelle regole della rappresentanza; lo spazio è assicurato da misure effettivamente antidiscriminatorie e anche da azioni positive. E una democrazia paritaria richiede il ricambio, è essa stessa uno dei fondamenti del ricambio. La democrazia paritaria è il primo fattore del rinnovamento. Impone una svolta ed è la leva – una delle leve, forse la principale – per rifondare la Repubblica su nuove basi. Io penso che sia una leva anche per costruire la Terza Repubblica.
La Toscana può, stavolta, essere un esempio positivo del cambiamento. Veniamo dunque alle varie ipotesi di riforma che sembrano essere sul campo, e che discuteremo con i nostri ospiti, prima nella tavola rotonda e poi nel dibattito.
Cercherò di riassumere le proposte che mi sembrano sul tappeto, e come esse possono costituire, e in che misura, una occasione di democrazia paritaria. Ricordo a voi e me stessa che nessun sistema elettorale è perfetto, presenta vantaggi e svantaggi da considerare con attenzione. Dunque un sistema va valutato rispetto agli obiettivi che ci si pone. Il nostro obiettivo, lo ripeto, è di considerare quale sistema si avvicina di più ad una democrazia paritaria di genere.
Sicuramente sul tappeto c’è il ritorno al voto di preferenza, che può essere facilmente introdotto lasciando invariato tutto il resto del sistema di voto. Se si intende andare in questa direzione, l’unica strada che possa in qualche modo favorire la parità è prevedere un sistema con doppia preferenza. In pratica, all’elettore si dà l’opportunità di dare due preferenze e, qualora questa sia la sua scelta, obbligatoriamente devono essere di genere diverso (un uomo e una donna). Con questo sistema la Regione Campania è passata da una rappresentanza femminile del 6% a quella attuale del 24%, superiore alla nostra Toscana, che ha visto l’elezione, in prima battuta, di solo 9 consigliere su 53. Sfioriamo un misero 17%, un risultato che certo non ci fa onore.
Con noi c’è oggi Giuseppe Russo, presidente del gruppo PD della Regione Campania, che ci dirà dell’esperienza fatta in quella Regione. C’è anche il consigliere della Toscana Pieraldo Ciucchi, che ha già presentato una proposta di legge in tal senso.
In linea di massima, è vero che la doppia preferenza (volontaria, non obbligatoria) mette le donne in una condizione migliore. Confermata la sua legittimità dalla Corte costituzionale, è diventata una delle soluzioni ad oggi più sicure. Eppure, qualche riserva può essere avanzata.
Intanto, il sistema della preferenza non è neutrale rispetto al comportamento dei candidati. Impone una campagna elettorale molto complessa e competitiva tra i candidati della stessa lista, e molto costosa. Mi chiedo, perciò, se questo è il terreno più favorevole per le donne. Per imporsi senza assumere tutte le modalità di una competizione tradizionalmente maschile, le donne devono essere molto, molto conosciute. Inoltre, mi sembra che, per essere eletta, una donna dovrebbe trovarsi in una lista con poche donne (avere una minore competizione tra le donne) e soprattutto affidarsi ad alleanze (più alleanze) con gli uomini. Se non è molto, molto conosciuta, se non ha molti soldi da spendere (più di quelli necessari agli uomini, si può ritenere), alla donna che affronta la campagna elettorale non resta che “farsi eleggere” sostanzialmente dagli altri uomini candidati. Il risultato, poi, non è per nulla scontato.
Questo del risultato è un argomento che la Corte costituzionale ha usato per dire che la legge della Campania è legittima (perché non assicura il risultato, appunto). Devo far notare però una incongruenza: non mi risulta che sia considerato illegittimo il risultato scontato che, in gran parte, si ottiene con i collegi uninominali e, soprattutto, con le liste bloccate. Né mi risulta che ci sia stata avversione (giustamente …) ai listini regionali, dove cioè il risultato è scontato e ci sono spesso norme di rappresentanza dei due generi. Perché allora ci si oppone a liste formate in modo paritario? Non riesco a capire … Posso dirlo? La Corte Costituzionale mi sembra si preoccupi moltissimo della libertà dei partiti più che della libertà degli elettori. Essa ci offre con le sue sentenze una elevata considerazione della democrazia paritaria, ma questa posizione ad un certo punto si ferma. Non riesce a trarre tutte le conseguenze dal ragionamento culturale che fa.
Per tornare alla preferenza, vi racconto la mia esperienza. Ho partecipato a diverse competizioni elettorali.
Nella prima (elezione in un consiglio di quartiere), ero molto giovane e la politica era fortemente diretta da un partito strutturato come il PCI, in grado di orientare il voto di preferenza, peraltro tradizionalmente poco usato dagli elettori. La decisione politica era presa, non ho speso nulla, sono stata eletta – arrivando seconda – con il voto organizzato del partito (il PCI). C’erano le preferenze multiple.
Nella seconda, ancora con preferenze multiple, la situazione era più difficile, perché si trattava del consiglio comunale. Sono stata eletta sostanzialmente perché dirigente di partito e grazie al sostegno di dirigenti (uomini) influenti nel territorio. Sono arrivata penultima.
In queste due elezioni, il partito ha avuto un ruolo decisivo. Insieme a me, molto giovane, sono state elette numerose altre donne, pochissime delle quali molto conosciute.
Nella terza elezione sono arrivata prima. Era la prima volta che c’era la preferenza unica. La campagna elettorale fu diversa e competitiva. Avevo però dalla mia cinque anni di forte opposizione, nei quali mi ero dedicata ad un lavoro politico molto intenso sui temi dell’infanzia e dei servizi educativi. In quelle elezioni (era il 1995) ci fu un grande rinnovamento nelle liste del PDS. Fu la prima volta che spesi anche un po’ di soldi (non molti, e tutti miei e della mia famiglia). Ero più conosciuta, tra le donne sicuramente, ma anche tra gli uomini.
Quasi dieci anni dopo, dovetti accettare per “spirito di servizio” una nuova elezione in consiglio comunale. Venivo però da 5 anni di governo della città. Mi impegnai molto, spesi più soldi (sempre rigorosamente miei …) anche perché il partito già allora non era in grado di sostenere la campagna elettorale dei candidati, nemmeno di quelli – come me – più in vista. Il risultato fu molto lusinghiero (arrivai seconda, a una manciata di voti dal candidato largamente più quotato di tutti). Feci con le mie forze, ma vi assicuro che fu una esperienza che mi tolse il respiro. Ricordo che, in quella occasione, cercai di resistere al partito che mi chiedeva di candidarmi, obiettando che la mia candidatura – proprio per il fatto che ero molto conosciuta – avrebbe rischiato di oscurare altre donne, impedendone l’elezione. Conservo ancora la lettera che inviai ai dirigenti dei DS e al sindaco, nella quale sostenevo proprio questo.
La preferenza unica ritornò poi nelle primarie a sindaco del 2009. Ma questa è un’altra storia, non riguarda il sistema elettorale istituzionale quanto quello delle primarie, ed essendo troppo vicina mi permetterete di non approfondire l’argomento. Però due cose vorrei dirle. La prima riguarda le risorse utilizzate dai candidati, la cui sproporzione fu talmente evidente che il partito (il PD) decise alla fine di sorvolare su tutta la vicenda. La seconda riguarda le fortissime pubbliche pressioni che dovetti subire per lasciare il campo ad altri candidati (ovviamente uomini).
Infine, nell’elezione a consigliera regionale sono stata collocata per scelta del partito nella testa di lista, composta con criteri di rappresentanza politica e di genere. Il PD scelse di non fare le primarie sulla testa di lista. Dopo un po’ di esitazione, ho però accettato di buon grado questo tipo di candidatura. Del resto, come ho già detto, ero passata tra tante elezioni competitive che forse mi poteva essere riconosciuta una capacità di rappresentanza senza l’ennesima verifica del voto. Però, devo riconoscere che questo tipo di elezione non è soddisfacente, e che in futuro, se mi capiterà di tornare al voto, preferirei certamente una legittimazione più sicura.
Direi che il sistema elettorale non l’ho mai scelto, ne ho dovuto sempre prendere atto. Questa volta, da consigliera regionale, vorrei partecipare a costruirlo, soprattutto per promuovere il rinnovamento in cui credo.
La rapida carrellata che ho fatto usando la mia esperienza personale, mi fa dire che, se è vero che le donne che hanno vissuto un’esperienza simile alla mia non temono la preferenza, questa è però una modalità molto critica per assicurare una vera democrazia paritaria. Le donne, con la preferenza unica, ma forse anche con quella doppia, fanno fatica a superare lo scoglio della politica tradizionale. Però, e qui mi rivolgo al collega Ciucchi e a Floridia, qualche correzione forse potrebbe essere utile. Ad esempio, io credo che si possa utilizzare la doppia preferenza (volontaria) in piccole circoscrizioni elettorali (diciamo di tre candidati), stabilendo – come è sicuramente legittimo – la presenza nelle piccole liste di entrambi i generi. Insomma: o due donne e un uomo, o due uomini e una donna; si può votare uno solo o due di genere diverso. E’ una traccia di lavoro, si può considerarla? Anche perché, se in Toscana si introduce la doppia preferenza, già oggi ci sono circoscrizioni molto piccole, nelle quali il sistema opererebbe. Perché non farlo diventare generale?
Una delle obiezioni più forti che si possono fare a tutti i sistemi con la preferenza (anche a quelli che dopo riassumerò) è questa: chi decide quali sono i candidati della lista? È un problema che esiste in tutti i partiti, ed è variamente risolto, con modalità partecipate (fino alla primarie) e con modalità più discutibili e accentrate (fino alla correzione delle liste al momento della presentazione). Le primarie, ad esempio, non si fanno bene se poi c’è un voto di preferenza che le rimette in discussione, perché costringe partito e candidati ad uno stress elettorale infinito. Primarie e voto di preferenza sono un po’ alternativi, e restano tali anche quando i candidati sono pochi. Mi sembra che la proposta Ciucchi sia, su questo, del tutto ragionevole, con l’abrogazione della legislazione toscana sulle primarie.
Dunque, fermo restando che la doppia preferenza è sicuramente uno strumento interessante, credo che sia il sistema uninominale o, come dirò, quello binominale, la modalità di voto che sembra più coerente con l’obiettivo che oggi discutiamo.
Quando si parla di sistema uninominale si pensa immediatamente a quello già in vigore nelle elezioni politiche del periodo 1994-2001, il cd. Mattarellum, basato sul principio che chi arriva primo è eletto. Ma di sistemi uninominali ce ne sono tanti.
Per la rappresentanza femminile è, in generale, sicuramente un vantaggio. Però tutto si sposta nella capacità del partito di candidare donne nei collegi uninominali con elevata possibilità di elezione. Dunque, se si vuole pervenire ad una democrazia paritaria, occorrerebbe una regola (che non saprei come porre) che dice: ogni partito deve candidare un numero pari di uomini e donne nei collegi uninominali con più probabilità di elezione. Sono le cd. “candidature gemelle”.
Come avviene in altri paesi europei, per spingere i partiti a candidare donne in collegi uninominali con alta probabilità di elezione si possono prevedere misure antidiscriminatorie e incentivanti. Mi pare che però esperienze come quella francese (dove c’è l’uninominale a doppio turno) non siano considerate dalla letteratura come effettivamente in grado di conseguire ottimi risultati.
Resta il fatto che il collegio uninominale sicuramente espone di più i partiti alla valutazione sulla loro capacità di rappresentare adeguatamente entrambi i generi. Per questo, come dicevo, il sistema uninominale mi pare preferibile. Nel caso di elezioni con basso numero di eletti, come quelle regionali, vedo una certa difficoltà a seguire una strada rigorosa, del tipo Mattarellum o doppio turno. L’uninominale più semplice, che consente il turno unico, il mantenimento di un equilibrio tra maggioranza e minoranza, e un premio di maggioranza, è in fondo il sistema elettorale provinciale. Qui, poiché i candidati di collegio si presentano tutti insieme, potrebbe essere più facile applicare regole sulla presenza paritaria di genere (tante donne quanti uomini candidati per ogni partito). Però, il sistema provinciale ha il difetto, abbastanza grave, di non assicurare che chi arriva primo venga eletto, e questo non dà in mano all’elettore una scelta vera.
I sistemi uninominali che conosciamo, perciò, mi sembrano un passo avanti. Certo, si sposta molto sui partiti la responsabilità delle candidature femminili, ma si facilita indubbiamente l’assunzione del problema da parte dei partiti stessi. Come dirò più avanti a proposito di un’altra ipotesi sul tappeto,
Sono, infine, emersi nella discussione due sistemi elettorali innovativi, entrambi basati sul binominale, cioè su piccoli collegi nei quali ciascun partito presenta la doppia candidatura di un uomo e di una donna.
Ci sono due varianti.
La prima, proposta da Lorenza Carlassare, è in realtà – almeno formalmente – un sistema uninominale, nel quale però è data la possibilità (non l’obbligo, mi pare) ai partiti di presentare due candidature, un uomo e una donna, e all’elettore di esprimere un voto di preferenza per uno dei due. Il voto di preferenza per ciascuno dei due determina il risultato complessivo del partito in quel collegio e l’elezione tra i due candidati di quello che ha preso più preferenze.
È un sistema elettorale molto interessate per ciò che discutiamo. Entrambi i candidati si battono insieme per far vincere il proprio partito. Però c’è tra i due anche una competizione, non distruttiva, perché anche il voto di chi dei due arriva secondo serve a far vincere il primo. L’elettore ha una scelta in più rispetto all’uninominale (nel quale sceglie solo fra candidati di diversi partiti). L’elettore infatti vota il partito e anche quello che preferisce tra i due candidati.
Questo sistema esprime plasticamente l’idea della democrazia paritaria come parità delle condizioni di partenza. Di fronte ci sono un uomo e una donna che si battono insieme ma che competono anche tra di loro.
Vantaggi e svantaggi mi sembrano evidenti. La democrazia paritaria si afferma nel momento elettorale, ma non è garantita in alcun modo nel suo esito; a prima vista, mi pare che il risultato è forse più difficile da raggiungere rispetto al voto di preferenza doppio in piccole circoscrizioni elettorali. Al limite, potrebbero vincere tutte le donne. Ma è evidente che le chances maggiori ce le hanno gli uomini. Il grande vantaggio di questo sistema è però che la legittimazione dell’elezione di una donna è molto più forte. L’elezione non dipende (come potrebbe avvenire con la preferenza doppia in liste lunghe) dalle alleanze con gli uomini. Le donne elette hanno sicuramente una marcia in più.
C’è infine, la possibilità, richiamata da Agnese Canevari ma oggetto nel passato anche di proposte di legge (Bordon-Mazzucca 1995), di pensare ad un sistema binominale (collegi con due candidati, una donne e un uomo), nel quale entrambi, se vincono, sono eletti. Questo sistema ha tutti i vantaggi dell’uninominale (è compatibile con il turno unico, con il mantenimento di un equilibrio tra maggioranza e minoranza, con il premio di maggioranza) e non ha alcuni svantaggi del sistema proposto dalla Carlassare. Si attaglia molto bene alle primarie, garantisce parità non solo in fase elettorale ma anche nel risultato. Ha il difetto, se così si può dire, che può essere realizzato meglio con grandi collegi (diciamo 14-18 in Toscana). Non può che prevedere una preferenza “interna”, poiché vi sono più situazioni – non la generalità, ma nemmeno marginali – nelle quali occorre stabilire che uno solo dei due sia eletto (ad esempio, quando ad un partito spetta un numero di consiglieri dispari, oppure quando un consigliere cessa dall’incarico per nomina in Giunta o elezione in parlamento, ecc.). E’ compatibile sia con candidati “di coalizione” sia con candidati “di partito”. Se è vero che, nella sua formulazione più semplice, appare distante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, è possibile introdurre varianti che lo rendano compatibile con le conclusioni della Corte. In questa direzione va certamente la preferenza interna; e poi, è possibile passare dall’obbligo della candidatura uomo-donna alla volontarietà, ponendo incentivi anche elettorali per favorire la scelta dei partiti. Bisogna lavorarci, ma le soluzioni si possono trovare.
Come ho cercato di dimostrare, le possibilità di una svolta ci sono. Lo spettro delle proposte è veramente ampio. Del resto, ormai dovremmo convincerci tutti che, come ha detto la Corte costituzionale, “… la finalità di conseguire una parità effettiva fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale. Si tratta, invero, di una finalità collegata alla constatazione, storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto tuttora esistente nella presenza dei sue sessi nelle assemblee rappresentative, a sfavore delle donne”.
Ecco, io credo che noi dovremmo porre rimedio a questa situazione francamente non più accettabile, da tutti i punti di vista. Non si tratta di un impegno di parte, ma di una carta che possiamo giocare insieme, a partire dalla donne di questo consiglio regionale. Ma direi, in primo luogo, dai partiti che ritengono di voler essere protagonisti della costruzione di una nuova Repubblica.
Mettiamo dunque nero su bianco le varie proposte, magari ritrovandoci ad un nuovo appuntamento di questo tipo. Poi, chi se la sente si faccia avanti.
Saluto al Convegno Società italiana delle Storiche
Convegno Società Italiana delle Storiche: DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE. LE ITALIANE DALL’UNITA’ AD OGGI. Rettorato – Aula Magna – 24 novembre 2011
Sul documento preliminare del piano dell’istruzione (PIGI)
Intervento sul documento preliminare al Piano di indirizzo generale integrato
Consiglio regionale, seduta del 25 ottobre 2011.
Il documento preliminare sul Piano di indirizzo generale integrato 2011-2015 presentato dalla Giunta regionale è un buon documento, e io credo che debba essere incoraggiato lo sforzo che la Giunta intende fare, nella redazione finale, per proporre all’approvazione del Consiglio un atto molto utile per le politiche dell’istruzione dei prossimi anni.
Non voglio farla lunga, anche perché – come dicevo – il documento lo trovo ben fatto e condivisibile. Mi limito perciò a segnalare alcune questioni, chiedendo alla Giunta di volerne tenere conto nello sviluppo delle politiche per l’istruzione, su cui il piano ci invita a riflettere, e che potranno tradursi anche in provvedimenti legislativi.
Per brevità, concentro queste osservazioni sul primo obiettivo del piano, quello relativo alla crescita qualitativa del sistema scolastico toscano.
Questo Consiglio ha approvato recentemente due mozioni, una sull’edilizia scolastica, l’altra sul sovra affollamento delle classi. Questi due temi vanno, a mio avviso, tenuti presente, per quello che la Regione può fare. Segnalo l’argomento, peraltro già contenuto in altri documenti preliminari, perché forse sarebbe il caso di richiamarlo anche in questo. Dico forse, per via di una oggettiva incertezza che c’è nel nostro lavoro, perché è indubbio che i nostri strumenti di programmazione debbano essere rivisti e riformati nel corso di questa legislatura. Troppe cose sono cambiate e tante cambieranno nei prossimi anni, per cui un adeguamento è necessario. Prendiamone atto, anche nel momento in cui procediamo – giustamente – alla loro approvazione secondo le regole vigenti.
Importantissime sono le conferme che vedo sulle attività e i servizi per l’infanzia, compreso – lo sottolineo – il potenziamento dell’offerta dei nidi (gestione e investimenti), e per la generalizzazione della scuola d’infanzia, che poi per noi vuol, dire non arretrare dall’impegno di assicurare a tutti i bambini la scuola dell’infanzia.
Sui servizi educativi per la prima infanzia siamo in Regione in prossimità degli obiettivi di Lisbona. Però una parte del territorio ne è privo, le liste di attesa per gli asili nido crescono e hanno ormai superato quota 7.000 bambini. Possiamo lavorare in questa direzione, sviluppando almeno servizi gestiti a livello di area intercomunale, e, insieme a ciò, puntare di più sulla riduzione delle liste d’attesa. Questi due obiettivi potrebbero costituire il nucleo dei nuovi criteri di riparto delle risorse regionali. Nel triennio passato, la Regione ha fatto scelte importanti, concentrando risorse per ben 73 milioni di euro. Ma lo Stato si è gravemente disimpegnato, e non sono più disponibili né le risorse del ministero della famiglia, né quelle del ministero delle pari opportunità.
Sappiamo quanto sia importante il discorso sulla continuità educativa (che il documento pone bene tra le azioni da sostenere). Giusto, dunque, puntare sulla generalizzazione degli istituti comprensivi. Questa operazione va fatta gradualmente, anche perché il tema del dimensionamento è oggetto di contenzioso con lo Stato, che gli ha impresso un carattere diverso, tutto giocato su immediati risparmi di gestione avulsi dal rispetto di elementari principi di buona organizzazione. Se perciò diciamo, come fa il documento preliminare, che la Regione Toscana punta sugli istituti comprensivi “come scelta pedagogica e non solo organizzativa”, dobbiamo anche contrastare processi di unificazione dettati per altre finalità e tutti giocati nella stessa logica delle drastiche riduzioni di questi anni. Fare scuola, infatti, non può diventare una corsa ad ostacoli.
Condivido, perciò, la scelta fatta dalla Giunta regionale di impugnare le norme del decreto-legge 98/2011 sul dimensionamento scolastico, quelle che impongono la costituzione degli istituti comprensivi e l’accorpamento delle istituzioni esistenti in base al numero degli studenti (1000 o 500). Sono norme che stanno determinando situazioni paradossali e gestioni pesantemente inefficienti delle istituzioni scolastiche, di cui sono un evidente segno gli incarichi plurimi di dirigente scolastico. Ed è importante che la Giunta regionale abbia approvato indirizzi per il dimensionamento scolastico che cercano di far fronte a questa paradossale situazione.
In altri documenti preliminari la Giunta ha posto giustamente l’accento su misure che riguardano il diritto allo studio dei ragazzi disabili. L’attenzione della Giunta regionale mi pare alta. Sappiamo che oggi, nella scuola, il problema emergente riguarda gli insegnanti di sostegno, dunque non gli educatori che intervengono in relazione alle competenze degli enti locali, ma proprio gli insegnanti della scuola. La situazione è difficilissima. Le responsabilità dello Stato sono inequivocabili. Diciamo correttamente nel documento preliminare, a proposito di come si governa la programmazione dell’offerta formativa e il dimensionamento della rete scolastica, che vogliamo superare l’attuale separazione tra programmazione e gestione degli organici.
Se si apre una strada concreta per l’attuazione del Titolo V sulle competenze regionali, si può pensare anche ad un intervento straordinario della Regione – del tipo di quello che abbiamo costruito sulle scuole dell’infanzia – per agire attivamente, negoziando con lo Stato un maggiore intervento regionale sulla gestione e, in questo quadro, destinando risorse in favore del sostegno all’handicap. Allo stesso tempo – e qui torniamo invece sulle competenze degli enti locali – potremmo rafforzare il ruolo delle istituzioni locali sui servizi di trasporto ai ragazzi disabili e, più complessivamente, sulle misure per il diritto allo studio.
Il tema, come si è detto, evoca quello del ruolo della Regione sul complesso sistema dell’istruzione. Qui mi sento di dire che in questa legislatura dovremmo perseguire un obiettivo ambizioso, assumendo le funzioni che ci spettano sull’istruzione, a partire dall’ufficio regionale statale. In questa prospettiva, credo che vada fatta la scelta di dedicare al sistema di istruzione una legislazione regionale ad hoc. Io non so quanto la scelta di avere un unico atto di programmazione – dai servizi per l’infanzia alla gestione delle crisi aziendali – sia il portato di una visione unitaria del tema dell’istruzione e del lavoro, o non sia stato, invece, determinato dal carattere “minore” delle competenze regionali sull’istruzione. Questa impostazione tradizionale, però, non mi convince. E non è convincente soprattutto oggi, dopo una processo di riforma di così notevoli e contraddittorie e criticabili proporzioni. È venuto il tempo, credo, di fare un deciso passo in avanti. Non è tema di questo documento preliminare, ma è tema che sta sul tappeto.
Del resto, solo una nuova legislazione sull’istruzione può affrontare anche il tema della cd. governance, tenendo conto che l’istruzione (dal nido d’infanzia alla scuola secondaria di primo grado) è funzione fondamentale dei comuni e che da qui a poco la maggioranza dei comuni toscani la eserciterà in forma aggregata.
La Regione Toscana nel suo insieme – a livello politico e a livello tecnico – ha, secondo me, volontà, esperienza e qualità per affrontare questa nuova prospettiva, che migliori l’organizzazione pubblica e metta a profitto le cose importanti fatte finora.
Il Piano di indirizzo generale integrato che discutiamo ne è una dimostrazione. Da qui possiamo dunque partire per qualificare e sviluppare la nostra azione.
La crisi economica e finanziaria
Intervento alla seduta del Consiglio Regionale del 6/09/2011
La crisi economica e finanziaria va affrontata con grande energia e onestà.
Diciamoci la verità: ormai in Italia il governo non c’è più. Nessuno crede che ci sia, nessuno è disposto a scommettere che la parvenza di governo che c’è ancora, aggrappato ad un pugno di voti in parlamento, con una maggioranza nel caos che non riesce a scrivere una manovra credibile, abbia l’autorità per assumere decisioni serie. In tempi normali, anche il migliore governo si sarebbe dimesso per consentire di fare lo sforzo che le cose richiedono. Leggi oltre →