La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi

Presentazione del libro “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi” – 19 maggio 2011, ore 17,00, sala conferenze dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaia – Via S. Egidio 23, Firenze

Trent’anni fa, era il 21 maggio 1981, il Presidente del Consiglio Arnaldo Forlani rese pubbliche le liste della Loggia Propaganda 2, rinvenute dai magistrati Turone e Colombo due mesi prima nella fabbrica di Licio Gelli.

L’impatto fu grandissimo. Forlani dovette dimettersi per aver tardato a rendere pubblica la lista. Spadolini, che gli succedette, sciolse la Loggia e il Parlamento istituì alla fine del 1981 una commissione d’inchiesta bicamerale. Tina Anselmi fu chiamata ad esserne Presidente. Leggi oltre →

Riforma elettorale e democrazia paritaria

Dalla relazione tenuta da Daniela Lastri sulla riforma della legge elettorale regionale Il 6 aprile 2011

Il 6 aprile, a Firenze, abbiamo discusso di riforma elettorale e di democrazia paritaria. L’iniziativa è stata promossa dal gruppo del PD in Consiglio regionale, ed ha visto la partecipazione di numerosi ospiti, e di esponenti del PD e di altri partiti. Dalla mia relazione introduttiva ho rielaborato alcuni passaggi, che qui ripropongo in forma riassuntiva. Penso che dovremmo proseguire nella nostra riflessione, per arrivare quanto prima, sulla base di una più ampia discussione, all’approdo finale: l’elaborazione di una proposta di legge di riforma radicale della legge regionale elettorale.

La discussione sul sistema elettorale è aperta sia a livello nazionale sia a livello regionale. Difficile ricostruire con certezza cosa bolle in pentola a livello nazionale. Il PD, ad esempio, ha assunto una posizione ufficiale per l’uninominale e il doppio turno. Ma un po’ dovunque cresce la critica a regole largamente considerate insoddisfacenti. Non so che cosa si riuscirà a fare. Temo ben poco. E il sistema elettorale della Camera condizionerà molte scelte politiche sugli schieramenti che si confronteranno.

A livello regionale è un’altra storia. Ed è bene decidere quando siamo ancora lontani dalle elezioni del 2015. La lontananza rispetto al 2015 può aiutare a ridurre il rischio di far prevalere egoismi di parte. Ed è bene che chi è chiamato a votare una nuova legge elettorale lo faccia anche con una certa distanza dalle proprie aspirazioni personali.

È bene, soprattutto, che la Toscana si lasci alle spalle il fatto di essere l’antesignana del sistema elettorale nazionale (per capirci, del porcellum). Anche se è giusto dire che questo non è vero fino in fondo: in Toscana ci sono le liste bloccate, è vero, che rappresentano il vulnus più evidente alla scelta dei cittadini; ma, ricordiamocelo, c’è la legge sulle primarie e il premio di maggioranza scatta solo se si raggiunge una certa soglia di voti (almeno il 40%).

Dunque, si deve cambiare, e noi siamo i primi a doverlo fare. Se lo facciamo in tempo, possiamo anche innovare di più, evitando che eventuali giudizi di costituzionalità – sempre possibili in materia elettorale regionale – si svolgano a ridosso delle elezioni.

Proverò ad affrontare il problema del sistema elettorale dal punto di vista delle donne, e credo che questo punto di vista offra spunti utili per tutti e per qualsiasi schieramento politico. Il gap di rappresentanza femminile è la spia più evidente della resistenza al cambiamento che attraversa il sistema istituzionale e politico.

Partiamo dal fatto che il sistema elettorale è l’aspetto centrale della rappresentanza. Io penso che sia venuto il tempo di passare dal discorso sulle “quote rosa” a quello della “democrazia paritaria”.

Mille sono i motivi, e tutti già detti in una sterminata letteratura. Certo è che le donne hanno un rapporto con il potere molto diverso dagli uomini. Questo rapporto diverso con il potere non è sufficientemente rappresentato. Le donne, in politica, continuano ad essere un numero esiguo, a dispetto della loro volontà di partecipazione. E il primo passaggio della politica è la rappresentanza nelle istituzioni. Se non si affronta questo passaggio, si fa fatica a fare qualsiasi passo ulteriore. La Toscana non ha risolto questo problema, anche se importanti fatti positivi ci sono stati, come la presenza paritaria delle donne nella Giunta e la scelta dell’opposizione consiliare di avere una donna come portavoce.

Io penso che per rinnovare la politica bisogna anzitutto femminilizzare i luoghi del potere. Questa è anche la condizione principale perché le azioni positive per la promozione del ruolo sociale della donna nel mondo del lavoro, delle professioni e dell’impresa non restino nell’agenda virtuale della politica. Ci si può affidare alla sola buona volontà dei partiti? Direi che non è sufficiente, per la semplice ragione che i partiti sono tentati più dal vecchio che dal nuovo. Bisogna invece superare la politica concessa alle donne o la politica che dà spazio alle donne a condizione che perdano qualcosa di sé nell’esercizio del potere. Ci vuole una svolta vera, un atto di auto riforma della politica tradizionale. Un po’ come avvenne con il voto alle donne.

L’auto riforma deve partire dal sistema elettorale, per rifondarlo sulla democrazia paritaria.

Il tema della democrazia paritaria attiene direttamente a come si esercita il potere, e se questo può essere rifondato più su principi di inclusione, di collaborazione e di cooperazione che sul conflitto e l’esclusione. In una democrazia paritaria uomini e donne hanno le stesse chances, ma non solo in senso formale. La democrazia paritaria è costruzione comune delle istituzioni democratiche. E’ giustizia di genere che si affianca a giustizia sociale. In una democrazia paritaria le donne non devono più chiedere spazio, perché questo è nelle regole della rappresentanza; lo spazio è assicurato da misure effettivamente antidiscriminatorie e anche da azioni positive. E una democrazia paritaria richiede il ricambio, è essa stessa uno dei fondamenti del ricambio. La democrazia paritaria è il primo fattore del rinnovamento. Impone una svolta ed è una leva – forse quella principale – per rifondare la Repubblica su nuove basi.

La Toscana può, stavolta, essere un esempio positivo del cambiamento. Veniamo dunque alle varie ipotesi di riforma che sembrano essere sul campo (o che vogliamo mettere in campo). Ricordo prima di tutto a me stessa che nessun sistema elettorale è perfetto, presenta vantaggi e svantaggi da considerare con attenzione.

Sicuramente sul tappeto c’è il ritorno al voto di preferenza, che può essere facilmente introdotto lasciando invariato tutto il resto del sistema di voto. Se si intende andare in questa direzione, l’unica strada che possa in qualche modo favorire la parità è prevedere un sistema con doppia preferenza. In pratica, all’elettore si dà l’opportunità di dare due preferenze e, qualora questa sia la sua scelta, obbligatoriamente devono essere di genere diverso (un uomo e una donna). Con questo sistema la Regione Campania è passata da una rappresentanza femminile del 6% a quella attuale del 24%, superiore alla nostra Toscana, che ha visto l’elezione, in prima battuta, di solo 9 consigliere su 53. Sfioriamo un misero 17%, un risultato che certo non ci fa onore.

In Toscana c’è già una proposta in tal senso, presentata dal consigliere Pieraldo Ciucchi.

In linea di massima, è vero che la doppia preferenza (volontaria, non obbligatoria) mette le donne in una condizione migliore. Confermata la sua legittimità dalla Corte costituzionale, è diventata una delle soluzioni ad oggi più sicure. Eppure, qualche riserva può essere avanzata.

Intanto, il sistema della preferenza impone ai candidati una campagna elettorale molto complessa e competitiva con quelli della stessa lista, e molto costosa. Mi chiedo, perciò, se questo è il terreno più favorevole per le donne. Per imporsi senza assumere tutte le modalità di una competizione tradizionalmente maschile, le donne devono essere molto, molto conosciute. Inoltre, mi sembra che, per essere eletta, una donna dovrebbe affidarsi ad alleanze (più alleanze) con gli uomini. Se non è molto, molto conosciuta, se non ha molti soldi da spendere, alla donna che affronta la campagna elettorale non resta che “farsi eleggere” sostanzialmente dagli altri uomini candidati. Il risultato, poi, non è per nulla scontato.

Questo del risultato è un argomento che la Corte costituzionale ha usato per dire che la legge della Campania è legittima (perché non assicura il risultato, appunto). Devo far notare però una incongruenza: non mi risulta che sia considerato illegittimo il risultato che, in gran parte, si ottiene con i collegi uninominali e, soprattutto, con le liste bloccate. Né mi risulta che ci sia stata avversione (giustamente …) ai listini regionali, dove cioè il risultato è scontato e ci sono spesso norme di rappresentanza dei due generi. Perché allora ci si oppone a liste formate in modo paritario? Non riesco a capire … Posso dirlo? La Corte Costituzionale mi sembra si preoccupi moltissimo della libertà dei partiti più che della libertà degli elettori. La Corte ci offre con le sue sentenze una elevata considerazione della democrazia paritaria, ma questa posizione ad un certo punto si ferma. Non riesce a trarre tutte le conseguenze dal ragionamento culturale che fa.

Secondo me, se guardiamo all’esperienza fatta, vediamo che le donne, con la preferenza unica, ma forse anche con quella doppia, fanno fatica a superare lo scoglio della politica tradizionale. Perciò, qualche correzione forse si potrebbe introdurre. Ad esempio, io credo che si possa utilizzare la doppia preferenza (volontaria) in piccole circoscrizioni elettorali (diciamo di tre-quattro candidati), stabilendo – come è sicuramente legittimo – la presenza nelle piccole liste di entrambi i generi. Insomma: o due donne e un uomo, o due uomini e una donna, o due e due; si può votare uno solo o due di genere diverso. E’ una traccia di lavoro, si può considerarla? Anche perché, se in Toscana si introduce la doppia preferenza, già oggi ci sono circoscrizioni molto piccole, nelle quali il sistema opererebbe di fatto. Perché non farlo diventare generale?

Una delle obiezioni più forti che si possono fare a tutti i sistemi con la preferenza (anche a quelli che dopo riassumerò) è questa: chi decide quali sono i candidati della lista? È un problema che esiste in tutti i partiti, ed è variamente risolto, con modalità partecipate e con modalità più discutibili e accentrate. Le primarie, ad esempio,  non si fanno bene se poi c’è un voto di preferenza che le rimette in discussione, perché costringe partito e candidati ad uno stress elettorale infinito. Primarie e voto di preferenza sono un po’ alternativi, e restano tali anche quando i candidati sono pochi.

Dunque, fermo restando che la doppia preferenza è sicuramente uno strumento interessante e utile, credo che sia il sistema uninominale o, come dirò, quello binominale, la modalità di voto che sembra più coerente con l’obiettivo che oggi discutiamo (le democrazia paritaria).

Quando si parla di sistema uninominale si pensa immediatamente a quello già in vigore nelle elezioni politiche del periodo 1994-2001, il cd. Mattarellum, basato sul principio che chi arriva primo è eletto. Ma di sistemi uninominali ce ne sono tanti.

Per la rappresentanza femminile è, in generale, sicuramente un vantaggio. Però tutto si sposta nella capacità del partito di candidare donne nei collegi uninominali con elevata possibilità di elezione. Dunque, se si vuole pervenire ad una democrazia paritaria, occorrerebbe una regola (che non saprei come porre, se non come regola interna agli stessi partiti) che dice: ogni partito deve candidare un numero pari di uomini e donne nei collegi uninominali con più probabilità di elezione. Sono le cd. “candidature gemelle”.

Come avviene in altri paesi europei, per spingere i partiti a candidare donne in collegi uninominali con alta probabilità di elezione si possono prevedere misure antidiscriminatorie e incentivanti. Mi pare che però esperienze come quella francese (dove c’è l’uninominale a doppio turno) non siano effettivamente in grado di conseguire ottimi risultati. Mi sembra che, pur di candidare uomini, i partiti preferiscano perdere gli incentivi e i premi che altrimenti gli spetterebbero.

Resta il fatto che il collegio uninominale sicuramente espone di più i partiti alla valutazione sulla loro capacità di rappresentare adeguatamente entrambi i generi. Per questo, come dicevo, il sistema uninominale mi pare preferibile. Nel caso di elezioni con basso numero di eletti, come quelle regionali, vedo una certa difficoltà a seguire una strada rigorosa, del tipo Mattarellum o doppio turno. L’uninominale più semplice, che consente il turno unico, il mantenimento di un equilibrio tra maggioranza e minoranza, e un premio di maggioranza, è in fondo il sistema elettorale provinciale. Qui, poiché i candidati di collegio si presentano tutti insieme, potrebbe essere più facile applicare regole sulla presenza paritaria di genere (tante donne quanti uomini candidati per ogni partito). Però, il sistema provinciale ha il difetto, abbastanza grave, di non assicurare che chi arriva primo venga eletto, e questo non dà in mano all’elettore una scelta vera.

I sistemi uninominali che conosciamo, perciò, mi sembrano un passo avanti. Certo, si sposta molto sui partiti la responsabilità delle candidature femminili, ma si facilita indubbiamente l’assunzione del problema da parte dei partiti stessi.

Sono, infine, emersi nella discussione due sistemi elettorali innovativi, entrambi basati sul binominale, cioè su piccoli collegi nei quali ciascun partito presenta la doppia candidatura di un uomo e di una donna.

Ci sono due varianti.

La prima, proposta da Lorenza Carlassare, è in realtà – almeno formalmente – un sistema uninominale, nel quale però è data la possibilità (non l’obbligo, mi pare) ai partiti  di presentare due candidature, un uomo e una donna, e all’elettore di esprimere un voto di preferenza per uno dei due. Il voto di preferenza per ciascuno dei due determina il risultato complessivo del partito in quel collegio e l’elezione, tra i due candidati, di quello che ha preso più preferenze.

È un sistema elettorale molto interessate per le cose che discutiamo. Entrambi i candidati si battono insieme per far vincere il proprio partito. Però c’è tra i due anche una competizione, non distruttiva, perché anche il voto di chi tra i due arriva secondo serve a far vincere il primo. L’elettore ha una scelta in più rispetto all’uninominale (nel quale sceglie solo fra candidati di diversi partiti). L’elettore infatti vota il partito e anche quello che preferisce tra i due candidati.

Questo sistema esprime plasticamente l’idea della democrazia paritaria come parità delle condizioni di partenza. Di fronte ci sono un uomo e una donna che si battono insieme ma che competono anche tra di loro.

Vantaggi e svantaggi mi sembrano evidenti. La democrazia paritaria si afferma nel momento elettorale, ma non è garantita in alcun modo nel suo esito; a prima vista, mi pare che il risultato è forse più difficile da raggiungere rispetto al voto di preferenza doppio in piccole circoscrizioni elettorali. Al limite, potrebbero vincere tutte le donne. Ma è evidente che le chances maggiori ce le hanno gli uomini. Il grande vantaggio di questo sistema è però che la legittimazione dell’elezione di una donna è molto più forte. L’elezione non dipende (come potrebbe avvenire con la preferenza doppia in liste lunghe) dalle alleanze con gli uomini. Le donne elette hanno sicuramente una marcia in più.

C’è infine, la possibilità, richiamata da Agnese Canevari ma oggetto nel passato anche di proposte di legge, di pensare ad un sistema binominale (collegi con due candidati, una donna e un uomo), nel quale entrambi, se vincono, sono eletti. Questo sistema ha tutti i vantaggi dell’uninominale (è compatibile con il turno unico, con il mantenimento di un equilibrio tra maggioranza e minoranza, con il premio di maggioranza) e non ha alcuni degli svantaggi del sistema proposto dalla Carlassare. Si attaglia molto bene alle primarie, garantisce parità non solo in fase elettorale ma anche nel risultato. Ha il difetto, se così si può dire, che può essere realizzato meglio con grandi collegi (diciamo 14-18 in Toscana). Non può che prevedere, secondo me, anche una preferenza “interna”, poiché vi sono più situazioni – non la generalità, ma nemmeno marginali – nelle quali occorre stabilire che uno solo dei due sia eletto (ad esempio, quando ad un partito spetta un numero di consiglieri dispari, oppure quando un consigliere cessa dall’incarico per nomina in Giunta o elezione in parlamento, ecc.). E’ compatibile sia con candidati “di coalizione” sia con candidati “di partito”. Se è vero che, nella sua formulazione più semplice, appare distante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, è possibile introdurre varianti che lo rendano compatibile con le conclusioni della Corte. In questa direzione va certamente la preferenza interna; e poi, è possibile passare dall’obbligo della candidatura uomo-donna alla volontarietà, ponendo incentivi anche elettorali per favorire la scelta dei partiti. Pensate solo al fatto che, se ci fosse questo binominale, per alcuni partiti l’obbligo (per regola interna) di candidare un uomo e una donna scatterebbe quasi automaticamente. Bisogna lavorarci, ma le soluzioni si possono trovare.

Come ho cercato di dimostrare, le possibilità di una svolta ci sono. Lo spettro delle proposte è veramente ampio. Del resto, ormai dovremmo convincerci tutti che, come ha detto la Corte costituzionale, “… la finalità di conseguire una parità effettiva fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale. Si tratta, invero, di una finalità collegata alla constatazione, storicamente incontrovertibile, di uno squilibrio di fatto tuttora esistente nella presenza dei sue sessi nelle assemblee rappresentative, a sfavore delle donne”.

Ecco, io credo che noi dovremmo porre rimedio a questa situazione francamente non più accettabile, da tutti i punti di vista. Non si tratta di un impegno di parte, ma di una carta che possiamo giocare insieme, a partire dalle donne di questo consiglio regionale. Ma direi, in primo luogo, dai partiti che ritengono di voler essere protagonisti della costruzione di una nuova Repubblica. Mettiamo dunque nero su bianco le varie proposte, magari ritrovandoci ad un nuovo appuntamento di questo tipo. Poi, chi se la sente si faccia avanti.

Daniela Lastri

Intervento sul DPEF – 2010

Questo DPEF della Toscana è lontano mille miglia dalla politica italiana. Meno male. Però la Toscana non è altrove, e si vede dalle conseguenze che ci attendiamo per via della manovra finanziaria di questo governo. Non uso aggettivi per qualificarla, non trovo le parole.

C’è molta preoccupazione – a volte perfino paura – per quello che sta avvenendo in Italia e per i rischi che corre la nostra democrazia. Una parte sempre più grande dell’opinione pubblica è sgomenta per ciò che accade. Non è solo l’incertezza del futuro, è un sentimento più preciso sui pericoli che stiamo correndo. Corruzione, manipolazione, dossieraggio, autoritarismo, mafia, malaffare, bavaglio alla giustizia, silenzio della stampa, sfida al senso comune. Questo nuovo potere fa paura, deve fare paura. L’Italia della seconda Repubblica sta precipitando in un abisso oscuro. Chi può deve reagire. Noi dobbiamo reagire. Si dice – a ragione – che il coraggio viene anche dall’accettazione della paura, cioè dalla consapevolezza del pericolo. Facciamoci coraggiosi. Non precipitiamo nel buio, accendiamo la luce della ragione.

Paradossalmente, la cosa più chiara di questa situazione è la manovra finanziaria del governo. Va contrastata, con tutte le forze, come hanno cercato di fare le Regioni in queste settimane. Soprattutto ne vanno contrastati gli effetti, depressivi e socialmente inaccettabili. Così leggo questo DPEF che andiamo ad approvare, e che condivido nella sostanza e nelle singole misure che contiene.

La situazione, per effetto dei tagli governativi, appare gravissima. C’è un segno nella manovra governativa che spezza alla radice qualsiasi possibilità di discussione seria: è la brutalità di un intervento anticostituzionale – fatto in aperta violazione dell’articolo 119 della Costituzione – che determina un ridimensionamento inimmaginabile dello spazio pubblico. Il Governo non parla di tagli alla spesa corrente per far fronte a sprechi o per innescare meccanismi virtuosi: qui in discussione è ormai lo spazio integrale del pubblico, quello che si chiama lo stato sociale. E il rischio che questo Paese riduca ormai decisamente il pubblico ad una social card. Per questo credo che abbiano ragione quelli che dicono che la manovra rischia di uccidere il federalismo prima che nasca.

Lo voterò, questo nostro DPEF, perché contiene molte scelte importanti e perché dà modo di rispondere con coraggio alle paure di questi tempi. Questo DPEF ci fa vivere intensamente l’impegno per il cambiamento.

Guardo alla sostanza. E la sostanza parla il linguaggio delle istituzioni seriamente impegnate a dare risposte ai problemi del presente.

Questo DPEF è ricco di impegni.

Le vedo nelle politiche per la scuola, per come vogliamo fare bene per i più piccoli e per le ragazze e i ragazzi. Tutte le cose che sono nel DPEF sono la traccia di un lavoro positivo, che guarda avanti. Vedo anche che non ci spaventa l’assunzione di nuove e maggiori responsabilità, per tutta l’organizzazione scolastica. È giunto il tempo, infatti, di rompere la spirale perversa nella quale il sistema di istruzione è stato ingabbiato dalla destra. Vedo anche che vogliamo costruire un rapporto più stretto tra istruzione e formazione professionale, e mi aspetto – dalla Giunta che vuole parlare il linguaggio delle opportunità di lavoro – maggiore attenzione a tutte le esperienze di formazione professionale (penso al CFP di Firenze) che affrontano a viso aperto i problemi dell’esclusione sociale di tanti ragazzi e ragazze, che hanno diritto a una opportunità in più. Vedo che affrontiamo con serietà il tema dell’infanzia (dai nidi alla scuola dell’infanzia), e dico che è giunto il tempo di portare su scala locale le competenze sui diritti negati dallo Stato e proclamati in questi anni dal sistema locale. Sono anche per un impegno deciso sul fronte dell’edilizia scolastica, della messa in sicurezza, della modernizzazione delle scuole. Mi piace – lo dico anche con una punta di orgoglio – l’attenzione sulle iniziative di integrazione degli alunni immigrati, a cominciare dall’insegnamento della lingua italiana.

Nel parere della V Commissione abbiamo cercato di dire queste ed altre cose, rimarcare il segno positivo delle scelte che stiamo compiendo, chiedendo anche di fare qualche passo ulteriore, che potrà trovare seguito nel Programma regionale di sviluppo.

Basterebbe questo, per dire tutto il bene possibile di questo DPEF. E infatti non mi diffondo oltre. Avremo altre occasioni, certamente, di parlare delle altre cose a cui tengo particolarmente (i minori, le donne, gli immigrati, la sanità d’iniziativa, la partecipazione dei cittadini, per fare solo gli esempi più forti).

Convincenti mi sembrano, poi, non tanto le parole quanto gli impegni concreti che ci assumiamo sulla green economy e sulla riforma delle istituzioni.

È da queste cose che vedo il profilo di una Regione che mi piace, e che aiuta ad affrontare le paure del presente. Una Regione nella quale non c’è un uomo solo al comando, ma c’è una democrazia che chiama tutte le istituzioni ad una nuova responsabilità.

Il futuro – visto da noi – sembra veramente migliore.  Ed è con questo spirito che darò il mio voto a favore del documento che discutiamo. Uno spirito che invita al coraggio di essere protagonisti del cambiamento.

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