Il futuro delle politiche educative e di welfare

Ripartire da etica e democrazia: quale vision e governance pubbliche per politiche educative e di welfare per le famiglie e l’infanzia?

(appunti – marzo 2012)

Mi chiedo che senso positivo cerchiamo di dare a questa nostra discussione. I nomi contano. Conta come chiamiamo le cose quando le cose non ci sono più. È quello che sta succedendo alla scuola pubblica, ed è per questo che bisogna urlare, altrimenti nessuno la vede più, la scuola pubblica. E men che mai i servizi educativi per l’infanzia, a partire dal nido.

Lentamente ma progressivamente stiamo assistendo al tradimento delle parole. I numeri no, quelli non tradiscono, e dicono che di questo passo l’Italia spenderà nel 2015 il 3,8% del pil per istruzione e ricerca. Oggi siamo al 4,3, una delle percentuali più basse d’Europa. Così non si salva l’Italia. Così l’Italia affonda.

Questo governo non so più come definirlo. I sacrifici erano necessari, non potevamo cadere giù nel baratro nel quale ci stava portando quelli di prima. Ma ora si tratta di dare qualità all’azione pubblica e alla spesa pubblica, e per la qualità occorrono riforme vere. Vivere in austerità è un obbligo, ma infine bisogna vivere non sopravvivere. E per vivere ci vuole molto, molto più coraggio di quello che dimostra l’attuale azione di governo.

L’anno che verrà porterà le elezioni, e – per me – il centro sinistra deve essere lì, pronto a prendere in mano la situazione. Perché fino ad allora non credo che le cose possano cambiare molto. Le forze che sostengono questo governo sono troppo eterogenee per dare respiro alla sua azione.

Perdonate questa premessa politica, ma ciò di cui si qui stiamo discutendo (le politiche educative e di welfare) tra un po’ potrebbero svaporare, perché c’è chi dice che il welfare europeo è destinato a soccombere.

Le politiche educative e di welfare hanno bisogno, per essere reimpostate e proiettarsi nel futuro, di un nuovo patto istituzionale. Oggi esiste una condizione negativa, che non consente di reimpostare alcunché. La condizione negativa è l’eccesso di competizione istituzionale generato dalla crisi. Comuni, province, Regioni e Stato sono essere stesse in profonda recessione democratica, e lo slogan prevalente mi pare ancora il “si salvi chi può”. Chi può, si difende, magari a scapito degli altri. Ma così non si va avanti per molto.

Modernizzare la scuola, reimpostare le politiche educative, dare un futuro al welfare locale si può fare solo con un cambiamento istituzionale e culturale profondo. È l’equilibrio tra centro e periferia che va rimesso in discussione. Oggi le politiche di decentramento rischiano di fondarsi sempre più su due pilastri negativi: la convinzione che gli sprechi sono in periferia; e che dunque proprio la periferia deve assumersi per intero il finanziamento delle politiche educative e di welfare. Questa impostazione degrada le politiche pubbliche.

Bisogna tornare invece a ragionare diversamente. Tornare a considerare la periferia come il luogo migliore, perché più vicino alla cura dei bisogni sociali, per avere efficienza e efficacia. Questa operazione non può essere portata a termine se centro e periferia non collaborano, non cercano di integrare risorse finanziarie e professionali, non stabiliscono un nuovo patto istituzionale. C’è una transizione che deve essere affrontata e praticata, la transizione dell’epoca dell’austerità, delle risorse scarse, per la crescita civile e sociale del Paese.

Il primo contenuto del patto sta dunque in uno slogan semplice: da solo nessuno ce la può fare. Il contrario del federalismo, finto e competitivo, che ha percorso finora le strade dell’Italia. L’autonomia non può mettere un Paese in una spirale perversa, colma di diseguaglianze sociali e territoriali. Dobbiamo ripartire, invece, dai livelli essenziali delle prestazioni che garantiscono allo stesso modo diritti sociali universali. Previdenza, salute, istruzione, ricerca, servizi sociali, trasporti, legalità: ogni sforzo deve essere rivolto a ristabilire questa ricchezza sociale, in un’opera di ricostruzione civile e morale che deve vedere un Paese ricostruirsi intorno ad una nuova unità.

Il secondo contenuto è “non un euro sia speso male”. Perché ciò avvenga, occorre mobilitare grandi energie professionali, che si trovano sparse dovunque nell’amministrazione pubblica. Ricomporre queste energie è essenziale. Se si lancia un programma per l’edilizia scolastica, per esempio, questo deve essere realizzato in un tempo certo e ragionevole.

Il terzo contenuto è semplificare i processi decisionali locali, per produrre decisioni buone, democratiche, partecipate, ma anche efficaci. Semplificare vuol dire alcune cose: aggregare per quanto possibile i comuni, stabilire un collegamento più forte tra Regione e comuni, ridurre al massimo il numero di atti che si frappongono tra le decisioni e le realizzazioni. Lasciando invece maggiore spazio ai processi partecipativi dei cittadini. Semplificare vuol dire anche far funzionare appieno la sussidiarietà, e dunque accettare l’idea della sostituzione, ogni qual volta l’azione pubblica può essere realizzata al meglio da un’altra istituzione.

Infine, il quinto contenuto. Il patto deve rimettere al centro non tanto le ragioni delle istituzioni coinvolte, le loro gelosie di ruolo, quanto i bisogni dei cittadini e degli utenti. Occorre una sospensione del conflitto. Direi quasi una sospensione del federalismo immaginato e imposto dalla Lega. L’ossessione deve essere convergere tutti verso obiettivi di qualità e di progresso, per difendere e sviluppare il nostro modello di welfare. Sembrerà strano ad alcuni che a dire queste cose sia chi – come me – insiste ormai da tempo per una maggiore assunzione di responsabilità della Regione nell’organizzazione scolastica, anche esercitando compiti attualmente gestiti dallo Stato. Ma in realtà io penso che, nella fase di crisi finanziaria attuale, se non vogliamo disperdere quello che abbiamo costruito, ad esempio qui in Toscana, non possiamo accettare una costruzione federalista fondata su tante piccole città-stato, che si gestiscono ciascuna a modo loro. Se si fa così, i primi a subire le conseguenze della contrazione delle risorse destinate alle politiche pubbliche saranno i servizi educativi per l’infanzia, perché è lì che opera più facilmente il ruolo sostitutivo della famiglia.

Ora, in Toscana abbiamo una forte tradizione da difendere, ma non possiamo farlo se non esercitiamo appieno il ruolo propulsivo della Regione, e se tra Regione e Comuni non si realizza il patto istituzionale che dicevo. Noi dobbiamo avere una nuova legislazione regionale sull’istruzione, nella quale trovi il posto che meritano le politiche per l’infanzia. Sia questa una scelta strategica, che tenga fermo – al centro – il diritto dei bambini e delle bambine a servizi di qualità. Una legislazione che sia cornice del nuovo patto istituzionale Comuni-Regione e che dica, in pratica, questo: per noi, per tutti noi, i diritti dell’infanzia sono una priorità imprescindibile e misura del livello di civiltà che vogliamo mantenere e sviluppare. Il patto istituzionale chiama tutti a rendere conto delle responsabilità, delle politiche fiscali, delle risorse che si usano.

Come vedete, non sono per niente tranquilla sulla capacità di reggere il confronto con la crisi finanziaria che viviamo. Non mi rassicurano i concetti, le cose giustissime che ci diciamo nei nostri atti pubblici, nella programmazione regionale come nelle programmazioni locali. Tutto può essere sommerso in un istante, in una manovra finanziaria, in una legge di stabilità. In un attimo. Se non ci predisponiamo insieme ad affrontare le difficoltà del presente e del prossimo futuro, tutto può rifluire in semplici politiche di sostegno individuale, da “Stato minimo”, magari in attesa passiva che anche queste politiche entrino in crisi. Poiché, invece, sono convinta che la spesa di istruzione e di educazione, fin dai primi anni di vita, è una spesa per lo sviluppo, dico che dobbiamo prepararci adeguatamente.

Vengo al punto del sistema integrato pubblico-privato sociale. Per me è una scelta importante e giusta, da sviluppare sulla base di un pubblico che non perda la sua autonoma presenza. Se questa manca, infatti, tutto il sistema si avvita in una logica di mera sostituzione. Nella mia passata esperienza di amministratrice la sinergia pubblico-privato ha dato risposte importanti, di qualità e di soddisfazione dell’utenza. Sono perciò per mantenere un nucleo forte di presenza pubblica, rafforzandolo magari in una prospettiva di maggiore impegno dei Comuni sulla scuola dell’infanzia. E sono per affrontare con serietà, nelle sedi opportune, il tema del trattamento economico dei lavoratori e delle lavoratrici impegnati nel privato sociale. Perché la scelta del privato sociale non sia solo il modo obbligato (finanziariamente obbligato) per sostenere lo sviluppo del servizi, ma sia – appunto – una scelta positiva, il riconoscimento che anche il privato sociale ha qualità da mettere in comune.

 

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